Vi propongo di seguito il debriefing della Mil-Sim/24h Black Hawk Down organizzata dagli Orsi Bruni d'Abbruzzo secondo il mio punto di vista, circondato dai compagni del mio club e ovviamente dai ragazzi con cui ho avuto il piacere di giocare nella fazione somala.
La prospettiva di una ventiquattrore può spaventare. Può eccitare. Può preoccupare. Può “assonnare”, ma in ogni caso EMOZIONA. Specie se ci si trova a chiacchierare in un freddo autogrill abruzzese, con poche ore a separarti dall’apertura delle danze: la difesa di Mogadiscio.
Per la quinta edizione dell’ormai famigerato Black Hawk Down, abbiamo deciso che ormai il battaglione 500 era pronto per un’esperienza nuova ma non sconosciuta. Unica ma viscerale differenza era il numero: di fronte a noi, decine di club da tutta Italia con l’unica grande voglia di confrontarsi per 24 lunghe ore in una grande giocata senza soste, con la impegnativa promessa di giocare uno dei migliori softair italiano.
Trovarsi alle sei di mattina di un dieci settembre in mezzo alla Roma-Pescara, con un caffè caldo stretto nelle mani (quasi tremolanti) a causa del freddo è fuorviante: per un Romano, sembra di essere in pieno autunno in preparazione per il canonico game domenicale. –“Anvedi che freschetto!!” sostiene ad alta voce qualcuno speranzoso. La prospettiva di una ventiquattrore infreddolita nei monti Abbruzzesi dopo una torrida estate è allettante, c’è chi si preoccupa addirittura del bivacco per la notte –“ Ma i teli impermeabili?” “Hai portato il sacco a pelo?!”.
All’arrivo in questa stupenda vallata tra l’Aquila e Pescara, però, ci si accorge subito che c’è qualcosa che non va.
Decisamente.
Circondati dai colli più o meno alti di questa splendida regione, veniamo subito accolti dai martellanti raggi del sole che, nonostante siano a malapena le 09:00 a.m. non hanno assolutamente nulla da invidiare al migliore dei soli Sahariani.
Intorno a noi solo montagne con fitta vegetazione messa a dura prova dall’astro assassino, la prospettiva è di intere spianate di arida terra, arbusti inerti e campi coltivati (per l’occhio del softgunner, piantagioni d’oppio) interrotti qui e lì da rada vegetazione. In lontananza delle rovine s’impongono nel panorama per la loro scenica bellezza: Mogadiscio è di fronte a noi, e la giornata è appena iniziata.
L’atmosfera c’è tutta: siamo a casa.
Il colpo d’occhio è fantastico, si presta perfettamente allo scenario che si cerca di ricreare (i maligni sostengono che ce starebbe meglio l’afghanistanne, noi prendiamo nota e andiamo avanti). Sotto il cocente sole abruzzese veniamo a contattato con i primi rappresentati degli Orsi Bruni d’Abruzzo che cordialmente ci invitano a parcheggiare nell’ampia no play zone/ campeggio/ parcheggio (appunto), oltre a sollecitarci nel “darci una mossa”: bisogna fare i controlli al cronografo, e per una volta devono farli tutti.
Parcheggiamo, prendiamo ancor di più confidenza con l’ambiente e perché no, anche con la miriade di club che intorno a noi, come noi, si preparano all’evento e scopriamo che realmente si è venuti da tutta Italia. Piacevole, per una volta, sentirsi un poco uniti.
Tra una risata e una cazzata, riusciamo ad agghindarci con gli umili panni del combattente somalo, e forti dei nostri ak, riparati dalle nostre Kefiah notiamo con fiero disappunto che le fila del feroce esercito somalo sono composte più da figli dell’occidente (Pseudo Mercenari? Pseudo S.F.?)che da spauriti e smunti soldati armati di Ak.
Il colpo d’occhio ne soffre molto.
In ogni caso, non tardano ad arrivare le prime note positive. Una volta completata la vestizione, ci dirigiamo verso la zona adibita al controllo al cronografo, piacevolmente sorpresi dalla perizia e dall’attenzione con la quale gli addetti controllano le armi di tutti i partecipanti all’evento, cosa non così scontata.
Appurata la nostra legalità, ci accingiamo a dare il primo sguardo alla capitale. Il mercato è affollato: innumerevoli gruppi (tra i quali troneggiano senza dubbio gli Iena Korps con il loro Dioniso e PKM al seguito) sono intenti a parlottare nell’eccitazione del pre torneo, e finalmente si nota qualche sano barbone munito di Ak: non tutto è perduto.
Aspettando qualche tempo tra le rovine, godendoci gli esigui raggi del sole che filtrando dalle tende illuminano la cassa sovrastata di Ak al centro della piazza (qualche arma yankee c’è, ma vabbè.. bottino di guerra), veniamo finalmente interrotti per il discorso d’accoglienza al torneo (preceduto dalla riunione dei capi squadra, istruiti sul da farsi); qualche parola d’incoraggiamento, raccomandazioni, grida guerresche e tanta eccitazione: si comincia.
La prima mossa coinvolge i mezzi: sul Defender del Nostro comandante Teddy, lasciamo Mogadiscio unendoci ad un convoglio diretto nei pressi di una chiesa sconsacrata, dove ci si dovrà impegnare in una strenua difesa contro incursioni aeree combinate di Delta e Rangers.
Sul posto organizziamo giacigli e apprestiamo i fucili: l’attesa è snervante e gli elicotteri volano bassi.
La tensione non cresce esageratamente ma si sente chiaramente nell’area che lo scontro è vicino. Ormai quasi tutti gli elicotteri hanno depositato il loro carico umano quando veniamo informati dalle sentinelle a proposito degli spostamenti dei primi americani.
A questo punto è doveroso citare uno dei primi limiti del torneo: gli spostamenti in macchina costringevano il tracciato da percorrere su una linea, nota tanto ai somali quanto agli americani e riducendo quindi gli eventuali assalti a scontri a fuoco priva di qualsiasi forma tattica resi minimamente vivaci dall’estro dei più fantasiosi (uscire dalla strada per andare nella boscaglia laterale, massimo del virtuosismo) ma soprattutto uccidendo la componente “presidio”.
Perché dovrei muovermi dalla posizione presidiata e, si suppone, fortificata per correre in bocca al nemico che non conosce il campo dove io, si suppone, sia barricato? Questa è una domanda alla quale temo non troveremo mai risposta.
Siamo andati, abbiamo sparato e, a mio parere, abbiamo fatto brutta figura. Sia da una parte, che dall’altra.
In ogni caso, nonostante questa mossa poco furba, il primo assalto americano va a vuoto grazie soprattutto ad un piccolo grande uomo (con le crocs) che, correndo leggiadro come una cerbiatta in calore durante la tarda primavera, ha saputo tenere a bada l’orda Yankee. Vincitore morale e fisico di questa prima manche di torneo, viene acclamato dai guerriglieri somali.
Guerriglieri che, contrariati, si accorgono di un'ondata americana giunta un po’ troppo folta in prossimità del presidio. Dubbiosi, ci accingiamo a chiedere delucidazioni all’arbitro il quale sventa ogni dubbio svelandoci che molti dei caduti nel primo scontro a fuoco (lontano del presidio) sono tornati in gioco senza poterlo fare. Altro curioso avvenimento che più che giocare a nostro sfavore (alla fine lo scontro è stato comunque vinto e loro penalizzati e redarguiti) ci ha lasciato dell’amaro in bocca: più di un’ora a girarci i pollici mentre a qualche centinaio di metri si sfrullinava in allegria.
Dimostrazione che la slealtà non paga.
Appurata la fine dell’ingaggio, ci apprestiamo a recuperare le nostre cose e ad informarci sulla prossima posizione da presidiare, venendo a conoscere con stupore che tra un ingaggio e l’altro sarebbero passate praticamente 5 ore. Tempo, a mio parere, lunghetto.
Dopo una pausa di riflessione durata anche troppo accompagnata da una birra in paese (Viva gli sposi!), il Battaglione si appresta a raggiungere la sommità di una collina anch’essa dominata da rovine dove il nostro contingente si sarebbe dovuto impegnare a proteggere casse di R.P.G. contenute all’interno di esse. L’orario dell’assalto Yankee era previsto per le 10:00 p.m. con il sole abbondantemente tramontato: la notte stava arrivando.
Dopo una rapida ispezione del territorio, con i fratelli/compagni/camerata Machete, Krieg e Luger ci apprestiamo a edificare delle umili barricate per reggere al meglio l’assalto notturno dell’invasore nelle zone strategiche del campo.
Il lavoro da fare è molto e il tempo poco; riusciamo a completare l'opera che manca poco meno di tre quarti d’ora allo scoccare dell’ora X.
Riusciamo a mangiare in fretta e furia un boccone e, prese le armi, ci dirigiamo nelle zone di presidio.
Poco prima di appostarci il buon Machete ha l’ottima idea di utilizzare i chalumen per avere punti di riferimento ben visibili nel buio della notte, in modo tale da poter gestire al meglio le nostre forze difensive.
Detto fatto, fulmineamente utilizziamo la nostra dotazione per realizzare questa piccola chicca che durante la notte ci farà fremere non poche volte.
Comincia così l’attesa.
All’interno della nostra fortificazione, in costante contatto con tutto il resto dei somali, accanto al buon Machete passo ben tre lunghe, interminabili ore tra sussulti, filosofeggiamenti, citazioni, sonnolenze e risate deliranti senza che nessun americano si faccia vivo.
Circondati alla nostra destra da Kaiman e un male armato Luger, a sinistra da un bianchissimo Krieg dotato di visore notturno e tutt’intorno da oscurità, rumori e difensori tesi come corde di violino.
Sparuti sentori di avvistamenti vengono sporadicamente segnalati via radio, ma niente di concreto fino all’una: l’ora delle stelle e strisce.
Gli americani attaccano in massa, ma i somali si difendono bene e tra ben più di qualche grido e accusa lo scontro finisce in nostro favore. Ancora.
Qualcuno disse che quella notte volarono più bestemmie che pallini: ancora una volta abbiamo avuto la prova che in notturna il clima si scalda molto più facilmente che sotto il caldo sole di Settembre.
L’effetto è quello di un morbo: chi è duro a morire fa incazzare chi ha colpito, il quale a sua volta diventerà duro a morire per ripicca; è un circolo vizioso che può solo finire a insulti e rinfacciamenti.
Fa piacere, in ogni caso, trovarsi con tutto il battaglione 500 intorno ad un Defender con la lucetta rossa bene in vista a ridere di chi urla e strepita, avendo anche sulla coscienza qualche colpito.
Fa piacere ricordarsi ancora una volta che giochiamo sì per vincere..
ma onestamente.
La gente finisce di urlare, i fucili smettono di sparare, gli arbitri sentenziano a nostro parere poco e niente.
E con loro finisce la notte del fuoco, con un’altra vittoria per Aidid.
Ancora una volta recuperiamo i nostri miseri averi, rattoppiamo i “feriti” e rimontiamo sui nostri possenti mezzi tornando, questa volta, alla no play area dove molti hanno trovato rifugio per la notte, sonnecchiando nelle loro tende.
Stanchi e provati, anche noi (scioccamente e ingenuamente, senza avere ben chiara l’idea di cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco) ci appoggiamo sugli scomodi sedili della macchina del buon Kaiman, senza riuscire però a prendere realmente sonno.
Nella sonnolenza più totale, veniamo destati da urla e raffiche: Mogadiscio è sotto attacco! Gli americani, cercando la sopresa, cingono d’assedio la capitale ma i nostri, dimenticando il sonno, rispondono bene.
Svegliati dal soprassalto, solo io e il valoroso Machete troviamo la forza di imbracciare il ferro del patriota e avventarci sul nemico infedele.
Col cuore all’impazzata, ancora increduli dallo spettacolo che si prospetta davanti a noi (suoni, luci, urla.. sembra proprio di essere in teatro) corriamo dritti per la nostra strada con il fucile spianato, alla ricerca dei kafir.
I contatti non tardano a presentarsi di fronte alle nostre retine affaticate dal buio della notte e, sicuri di noi ci avviciniamo in sordina alle loro spalle, in assoluta invisibilità.
Bersaglio sicuro nel mirino, avvolti dalle tenebre apriamo il fuoco e tutto ciò che riceviamo in cambio, nonostante palesi suoni di tattici “butterati”, sono rafficate di rimando.
Increduli ma salvi (grazie notte!) ripieghiamo, sfuggendo ai colpi del nemico. È chiaro che ormai il malcontento ha avuto la meglio e piuttosto che riuscire a far dichiarare un ammerregano rosicone, sarebbe stato più facile trovare il santo Grall nel tattico di Orso.
Tentiamo un’altra sortita, nella medesima modalità ma tutto ciò che riusciamo ad ottenere, dopo averli abbondantemente rafficati nella schiena è un: -“Oh ragazzi, ce li abbiamo alle spalle!!1!”
Amareggiati, assonnati e alquanto incazzati ci dichiariamo (senza che ce ne fosse realmente bisogno) e andiamo ad infoltire le già abbondanti fila di morti: per ogni 10 somali ve n’era uno americano, e l’arbitro era proprio lì.
Elementare, Watson..
Passa pure questa, e passa anche la notte. Un bengala cremisi illumina il cielo e sancisce per me l’ultima immagine di una notte tanto intensa quanto soddisfacente. Non tanto le genti, quanto le sensazioni hanno contribuito a lasciare in me e in chi come me è stato quella notte, sotto il pallido satellite in pieno plenilunio, ad aspettare l’inevitabile assalto un ricordo di emozione, adrenalina e paura che mai prima d’ora sono riuscito a vivere così vividamente.
Si pratica il softair in funzione di questo.
Le prime luci dell’alba si infrangono sui nostri volti assonnati: io, Machete, Krieg e Luger in cerchio; intorno a noi una tendopoli mugugnante, probabilmente infastidita dalle nostre risa, risa di chi non ha chiuso occhio per tutta la notte (o quasi), risa di chi ha vissuto il vero softair sulla propria pelle.. oltre ad una sana dose di sonno arretrato.
All’uscita dai loculi, si comincia a razionalizzare sulla prossima mossa: doveroso è l’assalto da parte dell’esercito di Mogadiscio nei confronti della base U.S.A.
Unico scopo: restituirgli il favore.
Solita solfa.
Ci si stiracchia, si sbadiglia, si riprende coscienza con il fantastico paesaggio albeggiante e si sale sui mezzi, direzione Ammerregani.
La tattica è, come ormai ci ha abituato l’alto comando somalo, un tantinello lasciata al caso.
Assalto frontale, pochi fronzoli.
Giustamente dopo un avanzata in massa, l’onda nera comincia a frammentarsi in piccoli gruppi che singolarmente sceglieranno la strada e l’approccio più consono.. al loro punto di vista.
Ovviamente il divieto assoluto di passare sui campi, scavalcare recinzioni e quant’altro è stato abilmente glissato, complice il tacito consenso e la scarsa quantità degli arbitri (c’è chi dirà il contrario, ma io l’ho visti veramente poco e da lontano).
Putroppo però, nonostante io e il buon Machete avessimo messo tutto il nostro impegno e abilità in questa fase del torneo (come si dice,
nun j’avemo fatto capì n’cazzo), l’epilogo è stato dei peggiori: complice una notte di incomprensioni e tensioni, accompagnate dal caldo asfissiante, due partecipanti di cui per fortuna non si sanno né nome né club di appartenenza sono arrivati alle mani per una vile questione di “Highlanderismo”, nota estremamente stonata,
troppo stonata.
Il nostro è sì un gioco, ma noi non siamo bambini.
Venire alle mani per una questione di bb è quanto di più infimo ci si possa
non augurare in un torneo di tale rilevanza. Il “
vaffanculo” è stato inventato apposta, e l’alcool per far pace a fine game di conseguenza.. ma comunque, cosa egualmente grave, il torneo è stato sospeso prematuramente proprio per questa ragione, invalidando il risultato finale della manche conclusiva.
(..anche se comunque stavamo a vince noi!)
Stanchi, accaldati ma devo dire non stremati (nonostante le ore, il torneo non è stato fisicamente provante, Cuore di Ghiaccio ci ha abituati a ben di peggio) ci togliamo con non poco rimpianto le vesti del guerriero, non dopo aver regalato l’ultimo pellegrinaggio nella roccaforte somala difesa strenuamente, dentro la quale svettava ancora, imperiosa, la stella bianca a sfondo azzurro.
Una gran bella soddisfazione, tocca ammetterlo.
A questo punto, complice lo stomaco, il pensiero volge alla ultima fatica del weekend: il pranzo.
Mai ci saremmo aspettati quanto ci attendeva: Vino, Birra, Pasta, Carne,
Arrosticini a sazietà, senza limite.
Ci siamo fatti del male..
del male vero.
Pieni, in dirittura d’arrivo per l’ubriachezza ed estremamente accaldati assistiamo alla premiazione che, ancora una volta, si scorda dei meriti del Battaglione non nominandoci neanche per errore tra i club che hanno fatto la differenza durante questa edizione del Black Hawk Down; fortunatamente parte della folla (quella che conta :P) ha a gran voce ricordato i meriti del nostro piccole grande uomo Luger, il cecchino nudo, l’uomo delle crocs, il folle.. chiamatelo come volete, ma attraverso lui il nome del battaglione è risuonato ancora un volta.
Perchè noi valiamo.
E in finale?
In finale è stato stupendo. Un’esperienza unica, non priva di sbavature, ma comunque l’evento più meritevole di attenzione sul quale gli abili operatori del battaglione abbiano mai messo mano.
Atmosfere, suoni, colori, natura, feeling.. il meglio che si possa chiedere da un evento del genere.
Seppur con una spesa non da poco, gli Orsi Bruni D’Abruzzo sono riusciti a mettere su una manifestazione spettacolare, senza bisogno di montare scenografie posticce e (penso) preferendo offrire un pranzo ristoratore rispetto a inutili orpelli scenografici che, probabilmente, sarebbero risultati pacchiani. Certo questa mossa può permettersela solo chi ha in gestione panorami del genere, ma mi viene da sussurrare
che fortuna..
La componente umana, purtroppo, è la variante impazzita che non si può in nessun caso controllare. Sono sicuro che nessuno dei ragazzi che ha partecipato al B.H.D. sia un Highlander, ma mi rendo conto che in certe situazioni anche il migliore degli Sportivi possa diventare il peggiore degli stronzi. Figuriamoci quando stronzo ci nasci..
Grazie del vostro tempo, spero di non avervi annoiato rendendovi al meglio la mia/nostra visione di questa intensa esperienza.
Allah Akbar!
Un ringraziamento sentito agli Sbs, ai Jolly Roger e agli Iena Korps: gran bella prova!
Ma in generale.. grazie a tutti i ragazzi che hanno organizzato, partecipato e reso possibile questo torneo: non importa se americani o somali, insieme abbiamo partecipato e insieme ci siamo divertiti.
Alla prossima!