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Dpm 68
Note storiche
L’uniforme da combattimento denominata 1968 Pattern o DPM 68 (Disruptive Pattern Material) fu il risultato di un’evoluzione iniziata già alla fine della seconda guerra mondiale.
Il fante inglese terminò il conflitto sul fronte europeo indossando la Battledress Pattern 1940: fabbricata in pesante panno di lana, derivava da un modello della fine degli anni ’30 e non aveva subito, nel corso della guerra, particolari miglioramenti o aggiornamenti nel materiale e nel taglio.
L’esercito americano, al contrario, aveva affrontato il conflitto con vestiario decisamente più adeguato, introducendo, già nel 1943, il cotone al posto della lana e inaugurando il sistema di abbigliamento “a strati”.
Nell’immediato dopoguerra, resisi conto della superiorità del materiale statunitense, gli inglesi rinnovarono radicalmente la propria tenuta, testando un’uniforme che riprendeva nel design e nei materiali proprio la combat dress americana.
Il primo risultato di questi studi fu il 1950 Pattern: composto essenzialmente da giaccone (smock) e pantaloni (trousers) , venne realizzato in cotone verde oliva e trattato chimicamente per risultare idrorepellente.
La nuova uniforme avrebbe dovuto esser sottoposta ad una serie prolungata di prove ma la guerra in Corea ne accelerò l’entrata in servizio: le truppe di stanza in Estremo Oriente erano infatti ancora equipaggiate con materiale risalenti al secondo conflitto mondiale e dovettero ricorrere a consistenti “prestiti” di materiale americano per sopperire alle deficienze dell’ormai obsoleto Pattern 1940.
Fu quindi avviata la produzione su vasta scala del Pattern 1950 in modo che, già nell’inverno del ’51, la maggior parte delle truppe in prima linea risultasse equipaggiata con la nuova tenuta, integrata da appositi liner che garantissero un maggior confort alle basse temperature, tipiche dell’inverno coreano.
Il nuovo equipaggiamento venne designato ufficialmente CWWV, Cold Wet Weather Uniform:letteralmente, “uniforme per clima freddo e umido”.
Il conflitto mostrò la bontà di fondo del Pattern ’50, rimasto in produzione per diversi anni: solo alcuni particolari di poco conto permettono così di distinguerlo dalla sua evoluzione, il Pattern ’60, introdotta dopo un decennio dall’inizio della guerra di Corea.
Gli esperimenti condotti durante il secondo conflitto mondiale sulle uniformi policrome stavano fornendo i propri frutti e l’Esercito britannico si era mosso in questa direzione già all’inizio degli anni ’40, introducendo tra i paracadutisti un giaccone in tessuto mimetico, denominato Denison smock.
Lo schema si era dimostrato perfettibile, ma gli Stati Maggiori erano comunque riusciti a dimostrare i vantaggi di un tessuto mimetico che compensava ampiamente i costi elevati relativi alla sua produzione.
Verso la metà degli anni ’60 venne quindi avviata la sperimentazione di uniformi policrome destinate a tutti i reparti indistintamente, e non più esclusivo appannaggio di unità ben circoscritte.
Al contempo si lavorò per superare i difetti del pattern 60, il cui design era spesso bollato come “very loose and baggy” (letteralmente: “allentato e rigonfio”) e un occhio di riguardo fu anche posto ad una semplificazione della produzione, così da mantenerne i costi.
Il nuovo pattern venne da subito progettato in due versioni, una più pesante, destinata ad operazioni continentali, ed una concepita per l’ambiente tropicale, più leggera e di più rapida asciugatura: quest’ultima, anche se in fase sperimentale, venne distribuita già nel 1966.
Per questo motivo, a fianco della denominazione ufficiale di DPM 1968, è frequente trovare anche l’indicazione di Pattern 66/68.
La versione continentale del Pattern 68 è composta da 2 capi, Smock Man’s Combat e Trousers Man’s Combat.
Entrambi sono realizzati con un cotone relativamente pesante (sateen cotton), stampato in uno schema mimetico a 4 colori (kaki, verde pallido, marrone e nero) e vengono interamente foderati con una sottile (nonchè decisamente fragile) stoffa di cotone popelin verde; poiché le parti non foderate sono realizzate con un doppio strato di tessuto, il verso della tela non è visibile praticamente in alcun punto, se non in prossimità dell’orlo inferiore dei pantaloni, dove, rivoltando il capo, è possibile notare come sia sostanzialmente bianco. La versione più diffusa prevedeva che le chiazze marroni e nere potessero avere i contorni “pallinati”, ma alcuni fabbricanti semplificarono la schema, limitandosi ad una stampa con macchie dai bordi netti.
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Al termine del ciclo di confezionamento la stoffa veniva trattata chimicamente per essere idrorepellente, anche se i risultati non furono mai esaltanti.
Nel complesso la realizzazione è comunque piuttosto curata: i materiali sono di ottima qualità, le cuciture raddoppiate nei punti di maggior sforzo ed il design assicura una vestibilità non priva di una certa eleganza.
Il piano di distribuzione del nuovo pattern fu indicativamente:
- 1968 iniziano le prime consegne alle unità regolari dell’Army;
- 1972 il DPM 68 è ormai standard in quasi tutti i reparti come Tenuta n. 8 (continentale) e Tenuta n. 9 (tropical);
- 1972 il pattern viene assegnato anche ai Parà, ma fino al 1978 circa il giaccone rimarrà il “giubbotto Denison”, poi sostituito dal Para Smock 68, che ne erediterà il design;
- 1975 anche il Territorial Army adotta il DPM 68;
- 1982 iniziano le consegne all’ Army Cadet Force;
- 1985 presso l’Army comincia la sostituzione con il nuovo Pattern 84.
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Lo smock è caratterizzato da 4 tasche frontali.
Quelle inferiori, piatte, cucite diritte, di forma pressoché quadrata, misurano approssimativamente 20x20 cm; i lati sono leggermente inclinati verso l’interno così che la base inferiore sia più larga dell’imboccatura. Le tasche superiori, di forma rettangolare (14x19 cm) ed anch’esse senza soffietto, sono cucite angolate verso l’interno, così da consentire un accesso più comodo. Tutte e quattro sono completate da una patta a punta, chiusa da un bottone a 4 fori di colore verde scuro.
Il capo si chiude frontalmente tramite una robusta zip in metallo ad un solo cursore, protetta da uno storm flap fermato da 4 bottoni identici a quelli delle tasche; un ulteriore bottone è cucito sul risvolto del colletto e permette di bloccarlo sollevato.
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L’interno dello smock, interamente foderato, presenta una tasca “portadocumenti” sul lato sinistro e, all’incirca all’altezza dei reni, una sorta di largo e basso “carniere”: una cucitura verticale lo divide in 2 scomparti diseguali (quello di sinistra è molto più stretto dell’altro) e la chiusura è affidata a due bottoni, che svolgono anche la funzione di bloccare la donkey tail .
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Allegato 285271Allegato 285270
Sia la tasca portadocumenti che il “carniere” sono realizzate con lo stesso tessuto verde oliva della fodera, la donkey tail con il più pesante materiale mimetico. Viene fissata anteriormente tramite 3 coppie di bottoni posizionate a differenti altezze in modo da garantire l’adattabilità alle diverse corporature.
Sulla parte alta del dorso, in corrispondenza della giunzione con il colletto, è cucito un occhiello che consenta di appendere lo smock.
Un laccio di colore verde scuro che scorre in una sorta di tunnel ricavato nella fodera, permette di stringere la giacca in vita e un’identica soluzione è adottata anche per il bordo inferiore.
Sulla manica sinistra è presente una taschina portapenne di forma rettangolare (circa 17x8 cm), divisa in due scomparti di diversa larghezza separati da una cucitura: la chiusura è affidata all’usuale patta con bottone a 4 fori.
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L’identico sistema di ritenzione è usato per i polsini (regolabili in due posizioni), per le spalline e per il cappuccio, che condividono anche l’uso degli stessi bottoni (un terzo è posto centralmente, dietro il colletto).
La posizione delle etichette (scritta nera su fondo verde) varia a seconda del fabbricante e del periodo di produzione: si possono trovare esemplari forniti di due etichette distinte (una per la taglia, una per i consigli sull’uso) o di una sola etichetta che comprende entrambe le informazioni. La taglia viene indicata sia con la vecchia numerazione (cifre da 1 a 8) sia con la corrispondente NATO size (composta da 2 gruppi di 4 cifre) ed è accompagnata dal nome del produttore.
Sulle istruzioni è riportato di lubrificare la zip così da garantirle una costante scorrevolezza e di non usare la forza per risolvere eventuali inceppamenti. Seguono suggerimenti su come garantirsi un maggior confort alle basse temperature (chiudere i polsini, stringere i lacci in vita e sotto le anche, abbottonare la patta frontale eccetera) e le istruzioni su come fissare il cappuccio.
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Quest’ultimo (Hood Man’s Combat) è di fattura molto semplice, foderato un tessuto verde oliva e presenta sul bordo anteriore il “solito” laccio per stringerselo intorno al volto. Si fissa allo smock utilizzando il bottone fissato dietro al colletto e quelli che fermano le spalline.
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I pantaloni del Pattern 68 sono realizzati nello stesso schema mimetico e con gli stessi materiali dello smock: perfino i bottoni sono identici (4 fori, diametro 1,8 cm, colore verde scuro), cosa che deve aver certamente aiutato a contenere i costi e semplificare la logistica.
Ad eccezione degli esemplari di pre-serie, che su derivazione del modelli precedenti presentano una sola cargo pocket sulla gamba sinistra, i capi distribuiti a partire dal 1968 sono caratterizzati da due tasche cosciali piatte di grandi dimensioni (circa 18x20,5 cm) con patta di chiusura.
Sono anche privi di rinforzi sulle ginocchia.
Retaggio della Battledress del secondo conflitto mondiale è la field pocket cucita frontalmente, a destra della cerniera: senza patta, chiusa da un bottone, di forma stretta e allungata (10x16 cm circa), mostra un disegno elaborato in quanto espandibile, ed era destinata, secondo le intenzioni, a contenere un pacchetto di medicazione.
Sul retro, a destra, c’è un’unica tasca aperta e altre due, interne a taglio verticale, sono posizionate sui fianchi.
La chiusura dei pantaloni è affidata ad una zip con denti metallici ed al solito bottone; cinque passanti abbottonati permettono l’impiego di una cintura alta fino a due pollici, come quella del Webbing 58.
Un altro sistema per regolare il girovita è rappresentato da due fettucce laterali: intercettando un bottone, permettono di restringere la taglia di un paio di centimetri.
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Sono previsti inoltre tre punti di attacco per le bretelle, ognuno costituito da una fettuccia e da una coppia di bottoni verde oliva uguali a quelli della versione tropicale del Pattern 68.
L’interno è interamente foderato da una morbida stoffa di cotone verde oliva che parte dalla vita e si arresta qualche centimetro sopra al laccio inserito nell’orlo alla caviglia: per evitare che esca dalla propria sede, la fodera è trattenuta da due fettucce poste all’interno.
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Le etichette, di colore verde scuro, sono cucite all’interno all’altezza della vita e riportano la taglia (nei due standard, numerico e NATO), il nome del fabbricante, due diversi codici numerici (forse legati al lotto produttivo e allo standard di produzione) ed una breve serie di indicazioni, simili a quelli già incontrati parlando dello smock.
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Brevi note integrative
Nonostante le direttive del MOD (Ministry of Defence) indicassero un unico modello di riferimento di Pattern 68, i singoli fabbricanti introdussero nel corso degli anni piccole modifiche.
Altre “migliorie” furono invece opera di singoli individui a cui l’equipaggiamento era stato distribuito.
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Si è già accennato alla presenza di capi dalle tinte più vive rispetto allo standard ed alle lievi variazioni nello schema mimetico (riscontrabile soprattutto nei contorni delle macchie marroni e nere); ancora, il numero e la posizione delle etichette variano a seconda del produttore, così come il tipo di chiusura lampo (comunque rigorosamente metallica) che presenta, talvolta, un prolungamento di stoffa o una fettuccia cucita alla linguetta del cursore per facilitare l’uso con i guanti indossati.
Modifiche sono state anche osservate nel disegno delle tasche, i cui spigoli possono essere sagomati ad angolo retto o presentarsi obliqui.
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Quanto ai miglioramenti apportati dai diretti utilizzatori, registriamo quelli di cui abbiamo trovato riscontro diretto.
Numerosi pantaloni mancano della field pocket: piccola e di difficile accesso, era posizionata in maniera tale da risultare, una volta riempita, scomoda specie in posizione prona. Voci non confermate sostengono inoltre che tale rigonfiamento, per la sua posizione, fosse da molti ritenuto piuttosto imbarazzante! Ad ogni modo, la sua abolizione, avvenuta con il successivo Pattern 84, non fu pianta da nessuno.
Altre paia di pantaloni sono state rinvenute prive della tasca posteriore, rimossa probabilmente perché, interferendo con la buffetteria, premeva nel punto d’appoggio delle kidney pouches o del poncho roll del webbing 58. In alcuni casi sembra sia stata riposizionata all’interno dello smock, in simmetria con la tasca già presente nella parte sinistra.
La fodera incontrò alterni consensi: benvenuta nei contesti operativi freddi e asciutti, si rivelò decisamente scomoda in altri. Quando il trattamento idrorepellente veniva meno (e succedeva piuttosto rapidamente) il pesante tessuto di cotone esterno impregnatosi d’acqua trasferiva l’umidità anche all’interno impiegando troppo tempo ad asciugarsi. Sempre la fodera, piuttosto scarsa quanto a traspirabilità, creava problemi con climi caldi o nei casi di sforzo intenso e conseguente, forte, sudorazione.
Per ovviare al problema presso molti reparti si diffuse l’uso della mimetica spezzata, abbinando lo smock in DPM ai pantaloni “lightweight” verde oliva, che non erano foderati. Laddove tale pratica non veniva permessa, si ricorreva direttamente all’asportazione della fodera: in qualche caso con un paziente lavoro di scucitura, in altri con una brutale rimozione “a strappo” che lasciava vistosi segni, specie intorno alle cuciture della vita.
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Altra modifica, piuttosto diffusa in zone a clima rigido era l’aggiunta, al fondo delle maniche dello smock, di una sorta di polsino aggiuntivo in lana, spesso ricavato da una vecchio paio di calzettoni, così come previsto nel giubbotto da paracadutisti Denison: questa soluzione evitava che il freddo penetrasse all’interno in caso di vento, ed aiutava a tenere al caldo le mani.
Diffusa già prima del pattern 68 era invece la realizzazione della piega “indelebile” sui pantaloni. Dato che in alcuni contesti rimaneva difficile mantenere l’uniforme impeccabile come da consegne, si ricorreva al trucco di “pinzare” l’angolo della riga con una cucitura (sia davanti che dietro): l’opera richiedeva buone capacità con ago e filo ma, se realizzata correttamente, forniva risultati spettacolari, facendo risparmiare ore di ferro da stiro e l’uso dei più vari espedienti per mantenere la piega.
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Note generali sul DPM 68 tropical
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Fino alla metà degli anni ‘60, la tenuta da combattimento delle Forze armate britanniche per climi tropicali fu rappresentata da una semplice shirt e un paio di pantaloni in cotone verde oliva, a cui si aggiungeva un bush hat di identico colore in sostituzione del copricapo d’ordinanza di ogni singolo reparto.
Con questa uniforme, ereditata senza troppi cambiamenti da quella in uso durante la seconda Guerra Mondiale, erano state affrontate le campagne in Malaya/Malaysia (1948-1960) e nel Borneo (1962-1966).
La decisione di introdurre in servizio un’uniforme continentale policroma comportò l’adozione di un modello analogo anche per il sud-est asiatico, in particolare una versione adatta alle operazioni nella jungla: lo schema a 4 colori rimase lo stesso ma la tonalità si presentava decisamente più accesa e dominata dal color giallo.
Cambiò invece radicalmente il tessuto, in quanto il misto cotone/sintetico garantiva resistenza e leggerezza uniti ad una sensibile rapidità nell’asciugarsi, caratteristica fondamentale in un habitat perennemente umido. La morbidezza della stoffa aiutava inoltre a prevenire sfregamenti e irritazioni della pelle, già pesantemente provata in un ambiente così duro ed ostile.
La tenuta Pattern DPM Tropical (tenuta n. 9), composta da jacket, trousers e bush hat cominciò ad essere distribuita in via sperimentale nel 1966 e divenne, negli anni a seguire, l’uniforme standard da combattimento per climi umidi (anche se, per vedere il definitivo abbandono della precedente tenuta verde oliva bisognerà aspettare, in qualche caso, anche la metà degli anni ’70).
Nonostante la successiva sostituzione (a partire dagli anni ’80), questa mimetica ha continuato ad essere molto apprezzata, soprattutto per l’ottimo materiale con cui veniva realizzata: amata dai veterani, alcuni anni fa’ ne è stato addirittura prodotto un lotto a tiratura limitata, fedele in tutto e per tutto alle specifiche dell’originale.
Jacket Combat Tropical
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Questo capo, di fattura estremamente semplice, è sostanzialmente una shirt e come tale è spesso definito. Lo caratterizzano due tasche pettorali a soffietto di dimensioni relativamente contenute (16x17 cm), inclinate verso l’interno e chiuse da una patta rettangolare con bottone. Quest’ultimo, con i suoi 1,7 centimetri di diametro e 4 fori, presenta un caratteristico color verde oliva chiaro e un incavo nel centro al fine, presumibilmente, di preservare i fili da usura e sfregamento.
Per chiudere l’apertura anteriore si utilizza una cerniera dai denti in plastica e un solo cursore che corre verticalmente lungo due terzi del fronte; a proteggerla, una patta a tutta altezza fermata da 6 bottoni con un settimo sul risvolto del colletto: in questo modo è possibile mantenerlo in posizione sollevata.
Bottoni anche per le spalline e per la chiusura regolabile (due posizioni) dei polsini.
Una tasca portapenne aperta, leggermente orientata sul davanti, è posta sulla manica sinistra; è provvista di 5 alloggiamenti piuttosto stretti pressoché identici tra loro.
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Una stringa di stoffa, fissata all’interno, sul retro, all’altezza del collo, consente agevolmente di appendere il capoquando necessario.
L’etichetta, in tessuto verde scuro, è cucita in basso, internamente al risvolto destro della shirt: reca solitamente la denominazione ufficiale del capo (Jackets Combat Tropical), un numero seriale forse antenato dell’ NSN e la taglia espressa nella numerazione utilizzata all’epoca. Seguono il nome del fabbricante, una serie di codici legati probabilmente al lotto di produzione, uno spazio riservato a nome e matricola dell’utilizzatore e sintetiche istruzioni per lavaggio e stiratura.
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Trousers Combat Tropical
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Simili nell’impostazione generale a quelli della tenuta continentale, i tropical combat trousers sono dotati di due cargo pocket (20x24 cm) a soffietto poste sulle cosce e, posteriormente, sulla destra, di un’altra tasca piatta; ciascuna, per esser chiusa, presenta la solita patta rettangolare ed il relativo bottone. Ad altre 2 tasche, una per lato, si accede tramite aperture diagonali all’altezza dei fianchi.
La cerniera frontale, in plastica, è protetta da una patta a 5 bottoni.
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Sempre 5 sono i larghi passanti abbottonati che consentono di cingere la vita con un cinturone. Due fettucce orizzontali, poste di lato sul girovita consentono di calibrare ancora meglio la misura standard: due le posizioni, proprio come avviene per i Man’s Combat Trousers continentali.
Un ulteriore accorgimento è costituito da un cordone piatto che scorre in una cavità ricavata nel girovita: le due estremità vengono annodate sul davanti, a mo’ di cintura.
Un laccio inserito nell’orlo inferiore dei pantaloni consente di stringerli alla caviglia.
Toppe interne in tessuto sono fissate in corrispondenza dei punti soggetti a sforzo laddove (ad esempio bottoni e patte) un ancoraggio ad un unico strato di stoffa potrebbe portare a rovinosi strappi.
L’etichetta è posta all’interno, dietro a sinistra, appena sotto il girovita. reca solitamente la denominazione ufficiale del capo (Trousers Combat Tropical), un numero seriale forse antenato dell’ NSN e la taglia espressa nella numerazione utilizzata all’epoca. Seguono il nome del fabbricante, una serie di codici legati probabilmente al lotto di produzione, uno spazio riservato a nome e matricola dell’utilizzatore e sintetiche istruzioni per lavaggio e stiratura.
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Bush hat
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Il bush hat in DPM 68 è sostanzialmente la versione in tessuto mimetico di quello utilizzato nella giungla già negli anni ‘50.
E’ costituito da una larga tesa circolare formata da diversi strati di tessuto, rinforzata ed irrigidita da cuciture spiraliformi; il corpo del bush hat, in tessuto doppio, è curiosamente alto e in corrispondenza della sua base corre una striscia di stoffa impuntata a intervalli regolati destinata ad inserire materiale utile al mascheramento. Appena al di sopra della stessa sono 4 fori di ventilazione circolari (2 per parte) protetti da griglie in metallo a maglia molto fitta.
All’interno, una per lato, 2 fettucce munite di occhielli metallici consentono di fissare un sottogola in paracord.
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Sembrano esistere due diverse tipologie di etichettatura del capo. Alcuni esemplari infatti, forse più datati, presentano un’etichetta di stoffa lucida, color verde smeraldo, cucita all’interno della fascia centrale, recante la taglia espressa nella numerazione utilizzata all’epoca, un numero seriale forse antenato dell’ NSN , il nome del fabbricante e una serie di codici legati probabilmente al lotto di produzione. Le istruzioni per il lavaggio sono riportate su una fettuccia fissata alla cucitura tra fascia e sommità del cappello.
Altri esemplari sono invece caratterizzati dalla presenza di un’unica etichetta di forma pressoché quadrata, in stoffa verde oliva o verde pallido, recante tutti i dati sopra indicati e la taglia espressa nel sistema metrico.
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Brevi note integrative
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Esattamente come la versione continentale, anche quella tropicale del DPM 68 fu oggetto di “personalizzazione”: da parte dei produttori e, soprattutto, da parte dei militari che la ricevevano.
Per quanto riguarda lo schema mimetico, si segnalano lotti in cui il pattern anziché dal giallo, è marcatamente dominato dal verde con le macchie sabbia e marroni molto più scure del normale. Ancora, le macchie nere tendono a perdere il bordo diradato in una sorta di “pallinatura”.
Se i pantaloni non furono mai, sostanzialmente, oggetto di modifiche “campali”, non altrettanto può dirsi delle shirt: in alcuni casi il portapenne veniva staccato dalla manica sinistra, privato delle cuciture, accorciato e cucito sulla parte anteriore del capo, diventando così una pratica tasca porta-bussola.
Altre volte una delle spalline veniva staccata e riposizionata frontalmente, nel tentativo di aggiornare ad una sorta di “standard S 95” un capo ritenuto validissimo ma ormai fuori ordinanza.
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Ignoti sono invece i motivi che possono aver portato alcuni a privare della cerniera la propria shirt, affidandone la chiusura ai soli bottoni: zip danneggiata e non sostituita una volta tolta o praticità e comodità (se non anche il disagio per un contatto tra zip e pelle, data l’abitudine ad indossarla senza una t-shirt sotto)? Fatto sta che in molti esemplari, appartenenti a lotti produttivi meno recenti, sono caratterizzati dalla presenza di una seconda patta interna, quasi in risposta a condivisibili lamentele della truppa.
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Per quanto attiene al bush hat, come già era successo per la versione precedente, gli utilizzatori si sbizzarrirono soprattutto con la tesa, ora privandola del bordo e sfrangiandola, ora riducendola di oltre metà oppure rimuovendola tutta salvo la parte frontale. Non risulta invece che modifiche al corpo del copricapo abbiano riguardato la sua altezza: ciò avverrà solo degli anni ’90.
A livello generale, è interessante notare come questa versione della DPM vedesse un impiego anche fuori dell’ambiente prettamente tropicale: la rapidità con cui asciugava la resero popolare anche in aree temperate e, in particolare i pantaloni, fecero la propria comparsa anche nelle aree di addestramento europee fino in Norvegia. Lassù, però, se ne consigliava l’uso solo con una tuta termica sotto ed un liner (detto anche Mao suit) sopra, onde evitare il sudore gelasse addosso con conseguente perdita di temperatura.
Di contro, la presenza di fibre sintetiche portò al divieto categorico di utilizzo nell’Irlanda del Nord: in un teatro d’operazioni caratterizzato dall’uso costante di bottiglie molotov e incendi frequenti, un tessuto che prendesse fuoco, si attaccasse alla pelle, e continuasse a bruciare, avrebbe reso le ustioni devastanti e più difficili da curare.
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DPM 68 – reperibilità
Il mercato del surplus militare è un mondo in continuo movimento, influenzato da tendenze, “mode”, improvvisi risvegli di interesse per settori o periodi, vere e proprie inondazioni di materiali o inspiegabili penurie di articoli fino a pochi mesi prima disponibilissimi.
Le note che seguono sono così puramente indicative e destinate a mutare nel tempo. E’ necessario inoltre ricordare come il materiale in DPM 68 non sia né così recente da essere ampiamente diffuso, né datato a tal punto da essere oggetto di collezionismo “di massa”: i capi più vecchi hanno 40 anni, gli ultimi realizzati 25 … realizzati tra l’altro, per un esercito numericamente contenuto. Proprio per questo sono poco trattati e conosciuti in maniera approssimativa da coloro che li vendono e li utilizzano.
Lo smock continentale è difficilmente reperibile in Italia: ad eccezione che dai “soliti noti”, costante presenza delle fiere di militaria, le speranze di trovarne un esemplare sono decisamente scarse. Il canale delle aste on-line sembra offrire invece molte più possibilità e prezzi sicuramente più interessanti (pur con le periodiche “perturbazioni” di cui sopra e l’incognita di acquisti effettuali sostanzialmente “ad occhi chiusi”). I prezzi praticati sono influenzati sia dalle condizioni del capo che dalla taglia proposta: le taglie molto piccole risultano solitamente di più facile reperibilità, i capi in buone condizioni sono venduti anche a più di 50,00 GBP, con punte di 100,00 in casi particolari.
Stesso discorso per i trousers, trovare un girovita (waist) superiore ad 82 cm. o una lunghezza gamba (legs) superiore a 75 può diventare una vera e propria impresa: mettete pure in conto tempi lunghi e una buona dose di pazienza anche se, contrariamente a quel che capita con lo smock, è possibile reperirne anche sul mercato italiano.
I prezzi più alti (40,00 GBP e oltre) riguardano le taglie più grandi; ancora, quando li abbiate trovati, ricordate di verificare con cura le condizioni della fodera (se presente), dei bottoni come anche l’usura del cavallo.
Non è difficile invece trovare la shirt tropical in Italia, impacchettata spesso in balle contenenti le shirt S95: in questi casi, è il colore diverso a farla risaltare nel mucchio e l’ignoranza di alcuni venditori a favorire un ottimo affare, specie se non siete più alti di 170 cm.!
Le cose vanno diversamente per i tropical trousers, vere “mosche bianche” alle fiere e relativamente presenti su aste quali eBay, generalmente in taglie piccole: salvo casi fortunati, già a partire dai girovita (waist) 80 e 84 cm., aspettatevi una lievitazione dei costi (si ricordano talune aste terminare addirittura sopra le 70,00 GBP).
Discorso analogo ai tropical trousers può esser fatto per i bush hat.
Procedendo ad un acquisto, prestate molta attenzione ai particolari: il venditore può non sapere cos’ha effettivamente per le mani o ignorare le differenze tra i diversi pattern DPM.
Spesso capita di trovare descrizioni fuorvianti e/o foto la cui resa cromatica può indurre in errore: invecchiamento del tessuto, usura, esposizione agli agenti atmosferici, errati lavaggi e un prolungato contatto con il sudore (pensiamo all’ambiente tropicale!) potrebbero aver alterato i colori e l’aspetto originario di stoffa e bottoni.
E’ bene quindi basarsi sul disegno, sulle etichette (ove presenti e leggibili) e su altri particolari univoci.
E’ capitato infatti che “Falklands smock” venissero messi in vendita con l’indicazione “DPM 68 smock”: la presenza di un cappuccio fisso ed imbottito, la maggiore lunghezza, la chiusura dei polsini affidata al velcro e la diversa misura dei bottoni avrebbero dovuto costituire un sicuro indizio perché non fosse fatta confusione. Episodi analoghi si sono verificati con alcuni smock DPM 84 particolarmente vissuti e scoloriti: in questo caso, le necessarie discriminanti erano rappresentate dalla fodera solo parziale, dalla presenza di tasche interne in tessuto mimetico e, nuovamente, dalle regolazioni in velcro.
Quanto ai trousers, è utile ricordare come intorno alla metà degli anni ’80 venisse prodotta una serie di esemplari foderati anche in DPM 84. Si distinguono dai DPM 68 per avere due tasche posteriori, la regolazione del girovita (waist) affidata a due fibbie scorrevoli e la fodera interna che termina all’altezza del ginocchio: lungi dall’essere disprezzabili, sono ritenuti per certi versi ancor più rari degli analoghi capi in DPM 68 perché distribuiti unicamente a Royal Marines, Special Air Service, Special Boat Squadron, al Reggimento Paracadutisti e a pochi altri reparti impegnati perlopiù in ambiente artico.
Su alcuni capi sono stati rilevate etichette con taglie espresse in formula centimetrica (introdotta all’inizio degli anni ’80): ciò porta a pensare si tratti degli ultimi lotti prodotti prima della versione DPM successiva, caratterizzata appunto da questo stesso sistema.
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Tabella delle taglie - SMOCK & SHIRT
Per ogni taglia viene indicata la corrispondente NATO size, così come riportato dall'etichetta. La NATO size si basa su una serie di 8 cifre; le prime 4 indicano l'altezza (di 10 cm in 10 cm, sottintendendo "un metro e.." ) minima e massima; le ultime 4 indicano la circonferenza toracica (di 10 in 10 cm e sottintendendo "un metro e.." solo dalla taglia 7 in avanti) minima e massima
Due esempi:
taglia 1 5060/8085 = vestibile da soggetti alti da 150 a 160 cm, con torace da 80 a 85 cm
taglia 8 8090/0010 = vestibile da soggetti alti da 180 a 190 cm, con torace da 100 a 110 cm
TABELLA
taglia 1 5060/8085
taglia 2 6070/9505
taglia 3 6070/0515
taglia 4 7080/8595
taglia 5 7080/9505
taglia 6 7080/0515
taglia 7 8090/9000
taglia 8 8090/0010
taglia 9 8090/1020